Cap. 1
<<E così mi ritrovavo incinta, con quel grosso fardello dentro la pancia. Fuori, dall’esterno, sembrava un pallone gigantesco, uno di quelli riempiti di elio, gonfiati talmente tanto che, alla fine, basta un alito di vento per farli scoppiare. Questo, invece, non scoppiava. Era duro, perfettamente rotondo, in equilibrio con il mondo, ancorato al mio ventre in maniera fissa, più delle lunghe e solidi radici di un albero secolare, ai piedi di un bosco.
E no, non scoppiava né andava via, questa pancia che, invece, tendeva a dilatarsi ancora, oltre ogni limite, appena cercavo di distrarmi. Sì, proprio così: cercavo di non pensarci, di non comprendere l’idea che fossi incinta, cercavo di allontanarne il pensiero, la vista, la responsabilità, ogni conseguenza. Se evitavo gli specchi, i riflessi della mia silhouette nei vetri delle grandi auto e dei centri commerciali, beh, succedeva che a volte dimenticavo di essere incinta.
Ero riuscita a superare (dicendo finalmente addio a) quei primi mesi in cui la testa girava per la troppa debolezza, i conati di vomito, i disturbi e le nausee per gli odori che avvertivo.
Ora potevo finalmente camminare liberamente, con un passo curiosamente deciso, sicuro, lungo le vie del centro cittadino; nessun fastidio esagerato alla curva della schiena, nessuna macchia scura sulla pelle, né una vena fuori posto; niente.
Se non fosse stato per quel pallone che continuava a gonfiarsi, nessuno avrebbe sospettato che fossi incinta, nessuno tantomeno Io.
E già: quel bambino/a, o semplice sconosciuto, non era stato programmato, né desiderato, né voluto, atteso, e nemmeno accettato, niente: ancora niente.
Era lì, che cresceva ed Io cercavo di far finta di niente, appunto: credevo che se non l’avessi preso troppo sul serio, magari avrebbe deciso di sparire in un istante, così come qualche tempo prima aveva deciso di comparire, in un istante, più o meno.
E Io non volevo accettarne l’esistenza, semplicemente. La cosa, pensavo, non mi riguardava, fine della storia.
L’ignoravo, e basta.
Adottavo lo stesso metodo che usano i bambini nel giocare a nascondino: chiudono gli occhi credendo che, se loro non vedono chi li cerca, neanche questi ultimi vedranno loro, di conseguenza. I bambini credono di essersi nascosti bene solo coprendosi gli occhi. È come se coprendosi gli occhi con le mani, un mantello di invisibilità si stendesse tutto intorno a loro. Ci sono foto che attestano questa speranza, utopia, proiettata come una certezza nella mente dei bambini di tutto il mondo, di ogni cultura, nazionalità, sesso o religione.
Bambini che si nascondono per metà, spesso coprono solo la testa lasciando intravedere palesemente non solo i piedi, ma tutto il corpo, da divani, tende, tavoli… Spesso, addirittura, rimangono proprio al centro della stanza con gli occhi chiusi e attendono, fiduciosi, che l’altro non li veda, per il puro spirito della teoria della mente che sottende al “se io non ti vedo, neanche tu mi vedi” e non riuscirebbero mai ad accettare la realtà che, però, è ben diversa dalle proprie convinzioni.
A me è capitato sempre di usare la tecnica al contrario: ho sempre fissato la gente, concentrando il mio sguardo nei loro occhi per richiamarne l’attenzione, certa della teoria che “se Io ti guardo tu non puoi non ricambiarmi lo sguardo, non puoi non vedermi, perché lo sguardo pesa, è esso stesso un peso; un peso che non puoi non sentire.”
E così, mi allenavo ora a rimandare la vista del pancione a quando fossi stata più sicura del da farsi e cioè: mai.
Sapevo che quella cosa sarebbe sparita da sola, prima o poi, ne ero assolutamente certa.
Io non abbassavo lo sguardo e quando non potevo evitarlo (per allacciarmi le scarpe, per esempio), beh, allora mi voltavo da un’altra parte per non dare motivo a quell’essere, a quel coso, a quell’ospite indesiderato di continuare la sua permanenza dentro di me.
Doveva andarsene, sparire, scoppiare.
“Io non ti guardo, faccio finta di non averti mai visto e tu scompari definitivamente.
Fine della storia.>>
Teoria della Mente (*)
Sembra che i bambini fanno un’associazione tra il loro “io” e gli occhi, il che suggerisce loro che coprendo i loro occhi diventano invisibili.